Il Cardinale John Njue, Presidente della Conferenza Episcopale del Kenya e Arcivescovo di Nairobi, è giunto a Torino in una pausa del Sinodo sulla Famiglia per partecipare alla Veglia Missionaria in Cattedrale con l’Arcivescovo Mons. Cesare Nosiglia, quindi ha celebrato la Santa Messa presso la parrocchia di Sant’Ignazio da Loyola. Qui ho avuto modo di intervistarlo.
Sua Eminenza, tra pochi giorni ci sarà la tanto attesa prima visita di Papa Francesco in Africa. Quali sono le vostre aspettative?
Il Kenya è già stato visitato tre volte da San Giovanni Paolo II, ed ora attendiamo con entusiasmo l’arrivo di Papa Francesco. Il Papa giungerà a Nairobi il 25 novembre per rimanervi due giorni. Sarà una visita purtroppo breve, ma sono convinto che darà ugualmente molta “energia” alla gente. Quella del Santo Padre non sarà solo una visita pastorale, ma anche una vera e propria visita di stato: è previsto l’incontro con il presidente Kenyatta ed una visita agli uffici locali delle Nazioni Unite, oltre alla Santa Messa nel Campus universitario di Nairobi e l’incontro con i religiosi.
Pensando al Kenya noi in Italia abbiamo ancora negli occhi le terribili immagini della strage nel campus di Garissa ad opera dei fondamentalisti di al-Shabaab. Lei ha vissuto da vicino questo episodio ed ha anche invitato coraggiosamente i fedeli alla preghiera per “tutti quelli che sono stati coinvolti”. Qual’è il clima che si respira ora?
Ovviamente non è possibile dimenticare una tragedia di tali proporzioni, ma devo dire che il clima in questo momento è molto più disteso. Mi preme chiarire che in Kenya non c’è nessuno scontro in atto tra cristiani e musulmani. Il problema del terrorismo esiste, ma le relazioni tra le due religioni sono tranquille. Sono stati proprio i musulmani i primi a dichiarare che in Kenya non ci sono contrapposizioni con i cristiani. Purtroppo c’è gente cattiva che per motivi che non hanno nulla a che vedere con la religione non esita a perpetrare stragi fingendo di agire in nome di Dio. Si tratta di bruttissime strumentalizzazioni.
Eminenza, parlando ai cittadini keniani emigrati negli Stati Uniti, a Bear, nel Delaware, Lei ha tenuto un’appassionata omelia in difesa della famiglia, dei valori cristiani e della tradizione africana. Le sfide che deve affrontare oggi la famiglia in Kenya sono molto diverse da quelle delle famiglie italiane?
Il concetto di famiglia può sembrare diverso, ma i valori sono gli stessi. Quando si parla di famiglia in Africa non ci si riferisce all’unione di due persone, ma ad un rapporto fra tutti i membri della famiglia. Questo appare evidente quando si parla di matrimonio. Noi abbiamo la cosiddetta “dowry” che si potrebbe tradurre come dote. In realtà è un legame tra le due famiglie.
Quello che ho detto ai miei connazionali emigrati negli Stati Uniti è questo: “ora siete in un altro paese, è giusto creare delle relazioni con altra gente, ma non rinnegate le vostre origini, ricordate che come africani avete una vostra cultura, preservate la vostra identità”.
Quello che si potrebbe dire alle famiglie italiane è questo: “non dimenticate i valori fondamentali della famiglia, coltivateli, rappresentano un tesoro da passare in eredità ai vostri figli”.
Eminenza, Lei è tra i 191 Padri Sinodali che partecipano ai lavori in Vaticano. Ci può raccontare qualcosa?
Il Sinodo è molto importante. Prima ho parlato di eredità. La Chiesa è chiamata a prendere delle decisioni che entreranno a fare parte della tradizione cristiana che noi lasceremo in eredità alle generazioni future. Bisogna essere cauti ed affrontare ogni punto con molta attenzione.
Uno dei temi centrali del Sinodo è la Comunione ai divorziati risposati. Io credo che già ora la Chiesa abbia tutti gli strumenti per gestire la situazione: se un matrimonio non funziona più si può ricorrere al Tribunale Ecclesiastico. Se questo verifica l’esistenza di una delle cause di nullità, allora il vincolo del matrimonio è sciolto. Diversamente i coniugi vanno accolti, hanno comunque un loro ruolo ed una posizione nella Chiesa, ma non possono accedere al Sacramento dell’Eucarestia.
La Chiesa Africana si presenta come realtà molto dinamica, si percepisce molto entusiasmo e partecipazione da parte dei fedeli. Cosa può fare la Chiesa Africana per la Chiesa occidentale e viceversa?
Poco fa abbiamo parlato delle sfide della famiglia. Le famiglie sono composte da uomini, donne, bambini. Sono persone, non angeli. Hanno le loro difficoltà e possono trovarsi ad affrontare delle sfide. Ciascuno di loro, nelle diverse età, dovrebbe essere accompagnato.
In Kenya abbiamo la PMC, un’organizzazione pontificia che si occupa dei bambini. Gli stessi bambini che vengono seguiti da persone che hanno amore di Dio, una volta cresciuti, trasmetteranno a loro volta questo amore ai propri figli.
Servono persone formate che stiano a fianco delle mamme, dei papà, dei bambini, degli adulti, in qualsiasi età occorre un accompagnatore, una guida.
In Africa e in Europa, la Chiesa può fare tanto. E’importante creare la consapevolezza di non essere solo persone, ma persone con una certa responsabilità. Non solo individui, ma membri di una società.
Quando sono arrivato la prima volta ad Embu mi sono trovato in difficoltà, ma poi con l’aiuto delle organizzazioni ecclesiali Missio e Misereor siamo riusciti insieme a fare una differenza enorme: adesso i giovani non pensano più “questo è mio”, ma “anch’io posso contribuire al bene di questa famiglia”.
Recentemente Lei ha invitato le donne africane ad essere “protagoniste di pace”, “strumenti di Dio per portare l’armonia nella società”. Qual è il ruolo della donna in Kenya?
La donna ha la capacità di creare un’atmosfera che facilita il dialogo. Le persone possono incontrarsi. Dal confronto può venire fuori la soluzione.
In Kenya erano frequenti le divisioni e la discordia, anche all’interno di uno stesso clan. Ora le cose sono migliorate. Quando si parla con una persona, bisogna imparare a non vederla a priori come un nemico. E’ una persona come te. Attraverso il dialogo si può imparare tanto.
In questo processo di dialogo la figura femminile può essere di molto aiuto.
Di Alessandro Ginotta
Questo articolo è stato pubblicato anche su:
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