Intervista a mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino, Custode Pontificio della Sindone e presidente del Comitato CEI Firenze 2015.
Eccellenza, lei è da sempre molto attento ai giovani. Come vede il futuro dei giovani torinesi e, più in generale degli italiani?
Il 50% dei giovani non ha lavoro. C’è un senso di disimpegno, a volte, in larghe fasce dei giovani, perché non si vedono considerati. Nelle “cabine di regia” non ci sono mai giovani. Sono sempre gli adulti a detenere il potere nei vari settori economici, politici e forse anche ecclesiali. Non è detto che anche da noi i giovani abbiano molto spazio. Si sente spesso dire “voi siete il futuro”; nella realtà a livello di sbocchi concreti per la vita non si trova una rispondenza nei programmi politici, ecclesiali ed economici. Io vedo, però, che c’è una volontà di reagire da parte dei giovani. Certo c’è chi si lascia andare, ma c’è una parte, direi anche abbastanza consistente di giovani, che invece vuole reagire a questa situazione.
Come reagire?
Noi dobbiamo dare un po’ di aiuto a questi giovani. Tutte le forze politiche, sociali ed anche ecclesiali dovrebbero dare vita ad un patto intergenerazionale. Gli adulti, le persone che contano, dovrebbero cessare di parlare soltanto di giovani, ma dovrebbero mettersi in ascolto dei giovani, e soprattutto dovrebbero mettersi in gioco insieme con loro. I giovani vogliono fare la loro parte. Bisogna che noi diamo loro spazio e cerchiamo di offrire loro delle possibilità concrete di dare quel contributo necessario e indispensabile che hanno per la città, per la Chiesa… Senza i giovani non c’è la possibilità di uscire fuori da questa situazione difficile che stiamo vivendo.
Io penso ad un’alleanza forte tra le generazioni. Al giorno d’oggi la società ha diviso i giovani dagli adulti, dagli anziani. Dove io vado, anche nelle parrocchie, in qualsiasi situazione sociale, c’è isolamento: al centro anziani sono tutti anziani, alla movida sono tutti giovani… Il mondo giovanile si è chiuso in se stesso, quasi a riccio. Accanto a questi giovani ce ne sono altri che desiderano invece avere una loro presenza e si esprimono nel servizio, nella generosità. Saranno forse una minoranza, ma ci sono: su questi giovani bisogna contare.
Ma come raggiungere i giovani?
Come diceva don Bosco e come dice anche Papa Francesco, non possiamo limitarci ad aprire gli oratori e restare ad aspettare chi viene. E chi non viene? Bisogna uscire, bisogna andare nei centri commerciali dove ci sono tanti giovani, nella stessa movida, dappertutto dove ci sono i giovani: farsi vicino ai giovani attraverso i giovani. È giusto che ad andare avanti siano proprio i giovani, ma noi dobbiamo dare loro la possibilità di sentirsi sostenuti, di avere una comunità alle spalle. Io penso che tutto questo a Torino sia possibile. Un’esperienza che ho fatto in questa città è proprio che quando c’è un progetto che viene lanciato, ed è un progetto “bello”, significativo, la risposta arriva.
Dobbiamo però proporre, dobbiamo dare la possibilità di comprendere e motivare il senso della proposta. Mi viene in mente la parabola del Vangelo degli operai dell’undicesima ora perché l’accento è posto su quelli che per ultimi sono chiamati ad andare a lavorare nella vigna: il padrone dice loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?” Gli operai rispondono: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. In questo momento i giovani sono un po’ come quegli operai. Dicono: “Ma nessuno mai ci ha detto queste cose”, “Nessuno ci ha mai impegnati”, “Impegnateci, noi siamo pronti a fare la nostra parte”. C’è terreno fertile. Ce la possiamo fare.
Lei è presidente del Comitato CEI Firenze 2015, quindi ha un po’ il polso della Chiesa in tutta Italia. Come vede il futuro del nostro Paese?
Gli italiani hanno risorse spirituali, umane, sociali, civili fortissime, soltanto che non ci credono più molto. Gli italiani si chiudono un po’ in un individualismo dove possiamo vedere il principio: “si salvi chi può”… Bisogna ridare il senso della comunità. Invece mi pare che le vie che si perseguono a livello politico, economico, di proposte, non siano su questa strada: si tende sempre ad esasperare il discorso dei diritti individuali. I diritti sono importanti, per carità, ma se non c’è anche una dimensione comunitaria, un rispetto degli altri, non solo di “te stesso”, si alimenta soltanto il “cancro” dell’individualismo, del disimpegno riguardo alla comunità. Io mi accorgo che ci sono tante associazioni, tanti gruppi, tante realtà, ma ognuna è chiusa in se stessa, è un arcipelago di isole che non comunicano. Papa Francesco ha più volte fatto rilevare che non servono costruttori di muri, ma costruttori di ponti.
Allora, che cosa fare?
Purtroppo nel nostro Paese c’è frammentazione. Si esaspera sempre di più il discorso dell’io anziché del noi. L’individualismo sfrenato porta alla frammentazione della società. Si smembrano le famiglie, non si sa più come impostare un rapporto di relazione famigliare. Si spezzano i gruppi, si spezzano le realtà sociali… Bisogna invece riscoprire l’anima del nostro popolo: la solidarietà fondata su valori etici, su valori spirituali, su valori comuni che ti diano la possibilità di sentirti parte di un popolo. Il futuro del nostro Paese dipende molto da questo richiamo forte ad una comunione che nasce dai valori.
Di Alessandro Ginotta
Questo articolo è stato pubblicato anche su:
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