Cadiamo quando siamo bimbi e barcolliamo compiendo i nostri primi passi. Scivoliamo quando commettiamo qualche errore a scuola o quando ci mostriamo impacciati con i primi amori…
Il mio in(solito) commento a:
Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria (Marco 6,1-6)
Chi ci conosce da tempo, chi ci ha visti crescere, non sempre sa essere sufficientemente obiettivo per valutare le nostre capacità. Probabilmente perché avrà assistito a tutti i fallimenti su cui, inevitabilmente, è costruito il cammino di ogni persona e, pensando a noi, gli riaffiora il ricordo dei nostri passi falsi.
Ma da cosa deriva la frase “nessuno è profeta in patria”? L’affermazione è tratta dai Vangeli: tutti e quattro la riportano: (Matteo 13,57), (Marco 6,4), (Luca 4,24), (Giovanni 4,44).
Ha guarito persone dalle rive del Giordano ai monti della Galilea, fino all’altra sponda del Mare. Ha scacciato demoni, placato tempeste, restituito la vita… ed ora è entrato in sinagoga, nella sua Nazareth, tra le persone che lo hanno visto crescere: “molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?»” (vv. 2-3).
I Vangeli ci parlano ben poco dell’infanzia di Gesù, ma possiamo attingere ai tesori nascosti della letteratura apocrifa per trovare appassionanti racconti sui primi anni della sua vita. E chissà quanti, tra coloro che lo stanno ascoltando ora nella sinagoga di Nazareth, avranno potuto assistere a qualcuno di questi eventi. Uno ve lo voglio raccontare, raccomandandovi però di leggerlo come ci si accosterebbe ad un romanzo. Anche se non possiamo essere certi che il fatto sia accaduto veramente, quello narrato nel Vangelo di Tommaso (un manoscritto databile tra il 60 ed il 140 dC), è un episodio tra i più teneri che io abbia mai udito:
“Giuseppe era un falegname specializzato nella produzione di aratri e gioghi. Una volta, un uomo molto ricco, gli ordinò di costruire un letto lungo sei cubiti. Giuseppe uscì dunque in campagna per prendere del legname e anche Gesù andò con lui. Tagliò due tronchi e li risquadrò con la scure. Ma quando, tornato a casa, li pose uno accanto all’altro, misurandoli, si rese conto che uno dei due era troppo corto. E non sapeva più che fare.
Gesù disse allora al padre Giuseppe: «Metti a terra le due assi e pareggiale da una delle parti». Giuseppe fece come gli aveva detto il ragazzo; Gesù si portò dall’altra parte, afferrò l’asse più corta e la tirò a sé, rendendola uguale all’altra. A tale vista, suo padre Giuseppe rimase stupito, abbracciò il ragazzo e lo baciò esclamando: «Me beato, perché ho avuto da Dio un tale figlio!»” (Vangelo di Tommaso 13,1-2).
Come puoi non amare un padre ed un figlio così? Eppure i concittadini di Nazareth, che ora ascoltano un Gesù ormai trentenne, si dimostrano increduli. Forse non avranno assistito a questo “miracolo domestico”, ma lo hanno certamente visto crescere e conoscono la sua famiglia. Non riescono a capire come possa essere il Messia tanto atteso. Per loro, il Cristo doveva essere qualcun altro. Forse un re. O un condottiero. Non certo – pensavano – il figlio di un falegname…
“Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua»” (v. 4).
Ancora oggi ricorriamo a questa frase quando constatiamo che proprio chi più ci sta vicino, familiari, colleghi, concittadini, compaesani, amici… non riesce ad apprezzare il nostro operato. Il problema era già noto 400 anni prima di Cristo, quando Ippocrate, in una delle sue sentenze, sottolineava l’effetto contrario, osservando cioè che, quando riponiamo la nostra fiducia nelle capacità di un’altra persona è un po’ come se, per far entrare il sole in casa, aprissimo anche quelle finestre che di solito lasciamo sigillate. E così, permettiamo alla luce ed al calore di splendere e rendere più luminosa ogni cosa. In qualche maniera, con la nostra fiducia siamo in parte artefici del successo dell’altro. Pensa, al contrario, quanto danneggiamo la persona di cui ci rifiutiamo di riconoscere le capacità, impedendogli, talvolta, perfino di agire!
Ma fiducia e fede sono parenti. Allora, fatte le dovute sostituzioni, possiamo capire perché Gesù stesso non operò nessun miracolo eclatante a Nazareth, nella sua terra natale. Certo, Cristo non ha bisogno del nostro consenso per realizzare un miracolo. Ma cerca la nostra fede. Perché a Gesù non piace fare miracoli “a senso unico”, ma Egli desidera coinvolgerci nelle scelte e nella decisione di cambiare. Non sgomita perché gli venga aperta la porta: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20). Prima di compiere la maggior parte dei miracoli, chiede prova della nostra fede. «Che vuoi che io ti faccia?», «Va’, la tua fede ti ha salvato» (cfr. Marco 10,51-52). «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (cfr. Luca 17,11-19). «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata» (cfr. Mt 9,22), e così via…
È la fede l’ingrediente che permette la realizzazione della maggior parte dei miracoli. È la fiducia che aiuta le persone a fare cose grandi. Ricordalo sempre! #Santanotte
Alessandro Ginotta
Sostieni labuonaparola.it
Se ti piace questo blog sostienilo. La tua donazione mi aiuterà a continuare a creare contenuti di qualità.
Ogni contributo, grande o piccolo, fa la differenza. Grazie per il tuo sostegno!
Vuoi ricevere i commenti di La buona Parola nella tua e-mail?
Iscriviti alla newsletter: è gratis e potrai cancellarti in ogni momento!